Clima, migranti e rifugiati, una catena che non si spezza E-mail
Venerdì 19 Settembre 2008 11:44

Le migrazioni delle specie definiscono fenomeni storici diversi nel tempo. Le migrazioni sono state uno straordinario ordinario meccanismo evolutivo, come mutazione/selezione/speciazione e come derive/estinzioni.
La migrazione di individui o di gruppi di una specie è fenomeno che rafforza e unisce la specie, più che separarla o indebolirla. Per molte specie, in molti casi, migrare “mescola” rapidamente popolazioni della specie, impedisce l’isolamento riproduttivo, integra analogie ed omologie, unifica le frequenze geniche (arrivando dove non arrivano i flussi genici). Oggi non possiamo separare (concettualmente e fisicamente) l’ambiente del pianeta Terra dall’unica specie umana. E la specie umana sapiente si è distribuita quasi ovunque sul pianeta, capitandovi o restandovi, a prescindere dal fatto che singole vite della specie sapessero o meno che il pianeta esiste, che altri luoghi esistono, che altro tempo esiste, che altre specie esistono.

La diffusione/distribuzione della specie umana ovvero il “popolamento” della superficie del pianeta sono avvenuti attraverso movimenti, spostamenti e migrazioni di “adattamento” al proprio ambiente ovvero all’ambiente del pianeta stesso, relazioni spaziali tra oggetti e individui nello spazio terrestre, elaborate dalla stessa specie umana sapiente. Si fluiva geneticamente “altrove”.
C’è una storia del migrare e una storia delle migrazioni umane. Dobbiamo considerare “migrazione” le peregrinazioni e i movimenti diffusivi originari della specie umana per i territori del pianeta, certo diversa dalle migrazioni di cui parliamo oggi: lungo migliaia di generazioni (geneticamente modificatesi) le  migrazioni ambientali fitogenetiche della specie umana hanno fatto la storia e la geografia della specie sul pianeta. Tutte insieme sono la “prima” migrazione, alla ricerca di un “altro” ambiente rispetto a quello in cui ci si trovava (si era nati), convivendo con altre specie, prima durante e dopo.
Migrare ha bisogno di un luogo, di una specie, di un gruppo, di un abbandono, di un motivo; non che ci sia un luogo dove insediarsi, né che si sappia cosa sia “insediarsi” altrove. Migrare significa spostamento da un ambiente di risorse/clima/cibo (poco sfruttabili o comunque incapaci di soddisfare o comunque sfruttate da altri) verso “altra” acqua, “altro” clima, “altro” cibo, verso ambienti più o meno progressivamente limitrofi; spostamenti più o meno lentissimi, più o meno forzati, più o meno consapevoli, più o meno eccezionali; spostamenti “orientati” da condizioni ambientali (sole, stella polare, sensi, esperienze fisiche e naturali).
Come per altre specie, allo scopo di sopravvivere o vivere, di nutrirsi, riprodursi, non ammalarsi, non morire, il popolamento umano della Terra è avvenuto migrando, la specie alla ricerca del minimo di nutrimento necessario alla prosecuzione della vita fisica, prima di vegetali commestibili, poi di cacciagione; per non subire fame e sete; per allontanarsi da certe specie e condizioni climatiche; per cercarne altre. Si è trattato di migrazioni ambientali (con rilevanti effetti per l’ambiente di partenza e di arrivo), collettive (anche nella forma dell’esodo), alla ricerca confusa e disordinata di altri ambienti, per primi quelli limitrofi, per lo più di climatic migration. E’ ormai assodato che molte primitive migrazioni erano causate da condizioni climatiche (quindi più longitudinali che latitudinali).
In quei giorni di oltre cento mila anni fa pare che fossimo poche migliaia, uomini e donne sul pianeta, in qualche foresta dell’Africa centro orientale, dove c’è ora la martoriata Etiopia, sembra. La crescita numerica non fu rapida, progressiva, continua. Migrarono piccole colonie di pionieri, crebbero, altre colonie di altre generazioni migrarono ancora.
La genetica e i meccanismi demografici dell’intera popolazione umana mondiale sono variati anche come effetto di migrazioni. La primitiva disseminazione dell’attuale specie umana da un luogo africano verso nord e sud, ovest e est è ancora in via di studio: avvenne più per obbligo che per scelta, collegando comunque costrizione a possibilità, necessità a potere, dovere a diritto.
Alcuni, circa tra 50.000 e 60.000 anni fa, riuscirono a lasciare non solo la regione (verso nord, verso sud, verso ovest) ma anche il continente (verso est), probabilmente dall’attuale Yemen, a bordo di “imbarcazioni” attraversarono il piccolo stretto tra Mar Rosso e Oceano Indiano, aprendo la via dell’esplorazione dell’intero pianeta. La paleoantropologia e la genetica (e anche la linguistica e la biologia) hanno raggiunto una simile conclusione sull’origine africana dell’uomo moderno.
Fin da allora, eravamo parte del sistema. Per decine di migliaia di anni restammo relativamente pochi in pochi vasti territori. Si sta studiando com’era la biosfera prima della specie umana sapiente e come sarà eventualmente dopo la sua estinzione: non ho dubbi che per qualche miliardo di anni altre specie e altra vita sopravviverebbero, pur con nostre tracce (le trasmissioni radio e tv vagheranno nel cosmo per miliardi di anni). Si sta studiando come siamo stati e stiamo al mondo da quando è diventato anche il “nostro”. Certamente, dal primo momento in poi, non abbiamo mai smesso di “adattarci” o di provare ad adattarci (e stiamo continuando a farlo) alle differenze ambientali e climatiche nell’esposizione al sole, nell’alimentazione, nelle nuove specie via via incontrate. E le migrazioni sono state e sono il principale meccanismo evolutivo.

Il senso delle migrazioni

E’ difficile che la maggioranza degli uomini e delle donne sapienti abbiano passato tutta la vita nello stesso territorio.
Non è l’istinto il motivo del migrare, nemmeno (solo) l’istinto di sopravvivenza. Migrare sperimenta qualcosa altro e oltre, una (relativa) in-dipendenza di un gruppo che si autonomizza. Migrare è spostamento di gruppo da un luogo per un motivo, alla ricerca (libera o necessitata) di un luogo che risolva quel motivo. Non riguarda tutti. Può fallire. Ha una storia. Le migrazioni sono un fenomeno fra tanti, ormai trattabile in modo unitario per le varie discipline che riflettono l’evoluzione storicamente determinata della specie umana. E’ maturo il tempo di una storia mondiale delle migrazioni. Del fenomeno e dei comportamenti migratori, interdisciplinare e complessa, né solo cronologica, né schematicamente tipologica, né puramente sistematica.
L’ambiente e il clima, i cambiamenti ambientali e climatici fanno evolvere la specie umana sapiente, dando valore al cervello nel frattempo affinatosi. Uomini e donne imparano ad adattarsi ai cambiamenti climatici, a cominciare dai cicli stagionali: si riparano, si difendono, si armano, cacciano, usano piante e animali, morti e vivi, si riproducono di più, comunicano, aggiungono arte. La specie umana ha sempre “modificato” l’ambiente e, parzialmente indirettamente progressivamente, il clima.
Il clima contribuisce alla definizione stessa di ambiente e ha sempre cambiato storia e geografia della specie umana. La parola “clima” viene dal greco, è una “inclinazione”: l’energia solare media che giunge al suolo varia a seconda dell’inclinazione dei raggi solari sulla superficie. Il sistema climatico terrestre dipende dalla diversa disponibilità di energia nel tempo e nello spazio della Terra e dal rapporto fra vita ed energia, fra specie ed energie.
Le vite tendono ad adattarsi al clima. La capacità del clima di indurre scelte ad animali è collegata a due sensibili elementi che differenziano le terre emerse e i mari: la temperatura dell’aria (l’umidità, la ventosità), il ciclo dell’acqua (in particolare la piovosità). La stessa configurazione (compresa l’inclinazione) del suolo ne risente in modo decisivo.
Dalla rivoluzione neolitica ad oggi esistono alcuni periodi delle migrazioni umane sulla Terra, scandibili non cronologicamente, sempre diacronici fra area e area del pianeta. L’agricoltura stanziale è un modo di vivere della specie umana sapiente sulla Terra, non di tutta, non sempre. Di molta, da un certo momento in poi, in luoghi diversi, in tempi diversi (sempre meno), capace di condizionarla tutta, a lungo. Fino all’apparizione dell’agricoltura stanziale vivere e migrare, migrare ed evolvere erano aspetti del sopravvivere, facce della stessa medaglia. L’uomo e il luogo dove respirava non erano legati ancora da un habitat unitario. Non tutta la specie umana era “nomade”, cioè consapevolmente coerentemente efficacemente dotata di una tecnica relazionale con luoghi più o meno ampi, con l’ambiente, con il clima, con l’acqua, con la terra. Il nomadismo poteva essere una tecnica di sopravvivenza, talora forzato, occasionale, regressivo. Riguardava alcuni gruppi, in alcuni continenti, in alcuni periodi. Per loro diventava un’identità “nomade”.
Migrare era una strategia evolutiva di sopravvivenza ed adattamento, all’interno della quale vi poteva anche essere, da un certo momento in poi,  l’attività pastorale nomade. L’evoluzione del nomadismo è la conoscenza dei percorsi e la riduzione degli spostamenti; la storia delle migrazioni è meno lineare (e magari riguarda anche gruppi nomadi), andando verso spostamenti più lunghi in tempi più brevi. La migrazione è l’opposto (forzato o scelto) della sedentarietà nel luogo originario; il nomadismo è compatibile con recinti e caverne, con la sedentarietà (ciclica, stagionale, parziale), anzi non può fare a meno di (altri) sedentari, andando verso la trasformazione dalla maggior parte dei nomadi in sedentari. Oggi stiamo inventando nuove forme di nomadismo o, almeno, di parziale nomadismo. Il termine torna ad essere abusato, resta impreciso. Spesso non si seguono o accompagnano specie animali, non ci cerca cibo, non c’entra la caccia, non c’entra la pastorizia. I cambiamenti climatici trasformano anche i pochi gruppi anticamente nomadi. Ed è vero che quasi tutti viaggiano ogni giorno (settimana, stagione) per lavorare, più di un miliardo viaggia ogni anno per piacere o obbligo, si cambia spesso luogo di residenza.
Il primo passaggio cruciale nella storia delle migrazioni è l’invenzione dell’agricoltura. Per praticarla la specie umana ha avuto bisogno che esistessero (in natura o creandole o ricreandole) condizioni ambientali, in particolare che il ciclo dell’acqua la consentisse. L’agricoltura, quel manto del suolo, localizza il cibo, addomestica animali e piante, concentra il tempo sul terreno, confina il territorio, diventa cultura del suolo. Pochi uomini e donne sul pianeta, poco suolo agricolo. L’invenzione dell’agricoltura riguarda superfici limitate, in aree di rare  regioni, in fasi non sincroniche sul pianeta (in qualche caso, millenni dopo, le colonizzazioni hanno incontrato popolazioni paleolitiche), via via in tutti i continenti.
L’evoluzione demografica planetaria muta paradigmi. Le migrazioni pure si diversificano, perdendo quasi ogni tratto di quelle primitive, acquisendo tratti e forme che durano ancora oggi, innanzitutto perché si consolidano legami specifici fra popolazioni stanziali e regioni naturali, gradienti geografici (più che razze) e generi di vita. La stessa biologia umana ne risente.

Le migrazioni sono da sempre e sempre ambientali
La natura non è ferma, stabile, ordinata. E ogni movimento modifica sia la natura che si “lascia”, sia la natura che si “trova”. Le vite individuali, i gruppi, le specie hanno imparato a ri-conoscere l’ambiente dove sono state generate e dove hanno generato. Via via che la vita si è territorializzata, ha delimitato spazi, ha definito habitat è mutato anche il carattere delle migrazioni. Ciò vale per le piante, per gli animali, infine e soprattutto per la specie umana, un primate ubiquitario e poliforme, invadente e ingombrante.
In tutti i periodi (successivi all’invenzione dell’agricoltura) il fenomeno delle migrazioni umane si è espresso all’interno dell’intervallo libertà-costrizione. La complessa combinazione tra libertà e costrizione si manifesta in tutti gli aspetti del fenomeno migratorio e, in particolare, in tutte le sue ambientazioni, il luogo da cui si emigra, il luogo in cui si immigra (esistano o meno “confini”), il percorso, funzioni e impatti dei mezzi di trasporto fra gli umani e di comunicazione fra i luoghi. Da quando economia e potere hanno cominciato ad organizzarsi (in particolare con gli Stati democratici e il capitalismo), la libertà di muoversi (e di muovere le merci) è diventata una conquista, associabile ad un diritto di restare (cittadino). Il profugo è costretto a spostarsi dal non riconoscimento di quel diritto. Deve migrare, non può non migrare, spostarsi è inevitabile per sopravvivere, la scelta casomai è fra morire o spostarsi di sopravvivenza.
Non è possibile in questa sede riflettere sui parallelismi, sulle connessioni, sulle differenze fra migrazioni della specie umana e migrazioni delle altre specie. Certo, la flessibile variabile combinazione di dovere e potere, di forza e libertà, di obbligo e diritto riguarda solo la specie umana sapiente. E i poteri, le libertà, i diritti degli umani hanno addomesticato movimenti e migrazioni di molte specie animali e vegetali: una storia delle migrazioni è difficile farla specie per specie, tanto più oggi con i cambiamenti climatici antropici.
Mi spiego con un piccolo fenomeno recente e rilevante: le migrazioni assistite o colonizzazioni guidate delle specie (non umane) a rischio. Da qualche tempo ricercatori, scienziati, ecologisti cercano di proporre “adattamenti” al crescente rischio di estinzione di un crescente numero di specie (oltre che praticare lotte e mitigazioni per contrastare la perdita di biodiversità). Pur con dubbi e cautele, non come soluzione ma come rallentamento, non come progetto ma come emergenza, una delle misure qualche volta suggerita è la migrazione assistita: trasferire alcuni esemplari (o tutti) di alcune specie (ad esempio, il Tatuara, un rettile) da un ambiente ad un altro per salvarli dall’estinzione immediata o vicina.
La lista delle specie (innanzitutto anfibi, lucertole e rane, oppure coralli; e farfalle) in cerca di rifugio ambientale (perché il rischio è biologico) e di asilo politico (perché la gestione è umana) è in realtà molto lunga. Tuttavia la migrazione è spesso da escludere: non tutte le montagne e non tutti i mari sono eguali, non sono eguali i due Poli, non ogni adattamento è possibile, non ogni trasferimento è praticamente realizzabile.
La migrazione assistita è interessante: alcune specie non si sono adattate a cambiamenti climatici del passato (nemmeno migrando) e sono estinte; altre (ancor più, anche la nostra) rischiano oggi. La specie umana sapiente può aiutare le altre specie e se stessa. Forse.
Animali e piante migrano da sempre e da sempre “forzatamente”. Donne ed uomini hanno potuto sempre (e sempre più) un poco “scegliere”, spostarsi è sempre stato (almeno un poco) un atto “libero”, almeno condizionato da alcune piccole libertà nella direzione, nella velocità, nella compagnia, in altre modalità di tecniche, spazi, tempi. Movimenti e migrazioni fanno parte di sistemi storicamente determinati di organizzazione sociale ed ecologica.

Il fenomeno migratorio è effetto e causa di processi storicamente descrivibili ma non sistematizzabili in via definitiva
All’interno della storia e della geografia delle migrazioni sono emerse innumerevoli variabili di gruppi, di abbandoni, di motivi. Prendendo in considerazione i soggetti che migrano oggi possiamo definire propriamente specificamente migrante ambientale chi non riesce più a garantirsi sostentamento nella terra d’origine a causa principalmente di fattori ambientali. Per il deterioramento dell’ambiente non per le condizioni naturali, per l’impoverimento della comunità non per la povertà originaria. Tali fattori possono essere distinti per elemento naturale che va in crisi (acqua dolce, mare, aria, suolo), per cause umane vicine (deforestazione, inquinamento del suolo o di risorse come l’acqua, crescita demografica, infrastrutturazione) e lontane (effetti delle moderne siccità e desertificazione, fenomeni climatici estremi). Oppure  per causa esclusiva (raramente) o invece solo prioritaria (concausa). Oppure ancora per la destinazione scelta, interna (lo stesso Stato, dalla campagna alla città, dall’interno al mare), vicina (Stati limitrofi più “ricchi”), lontana (un altro Stato, addirittura un altro continente).
I migranti ambientali sono divenuti, diventano, possono divenire “profughi” ambientali a seconda del grado di forzatura all’abbandono (a parte coloro che “vogliono” e programmano di andarsene): chi potrebbe anche restare ma “decide” comunque di andarsene, chi è obbligato e “deve” andarsene. La massima forza dell’obbligo consente di utilizzare il concetto di “calamità”. La domanda si sposta sulla esistenza e prevedibilità di eventi che rendono obbligatorio l’abbandono, rispetto ai quali la migrazione preventiva possa essere (ormai in futuro più che nel passato) prevenzione e riduzione del danno. Ovviamente sia migranti che profughi possono valutare la propria scelta o la propria costrizione come transitoria e reversibile, movimenti e migrazioni non sono (in partenza) diversi, né hanno sensi unici. Da migranti si diventa profughi se la forzatura a muoversi, il dover emigrare, l’obbligo della migrazione annullano quasi del tutto la componente di libera scelta.
Migrazioni forzate o quasi del tutto forzate sono sempre esistite anche per donne ed uomini. Le migrazioni forzate sono migrazioni, mutamenti fisici e temporali degli spazi di una e più vite. L’uomo è un animale sociale, insediato nel proprio ambiente e nella propria evoluzione. In ogni periodo e in ogni luogo migrare è atto umano di relazione con lo spazio e con il tempo, agito all’interno degli estremi della totale costrizione e della totale libertà, ovvero non esterno ad individui e generazioni della specie, ma elaborato dalla stessa specie, secondo una propria geografia e una propria storia.
Gli studi dei casi concreti mostrano da una parte che è difficile distinguere e che esiste sempre qualche tratto in comune, dall’altra parte che “rifugiati” esistono da prima che la loro esistenza sia stata legalmente riconosciuta e poi connessa ad uno status. L’individuo che liberamente sceglie se, quando, dove, come migrare è condizionato (e talvolta forzato) da un contesto sanitario, familiare, economico, sociale, ambientale. I nuovi nomadi sono una parziale eccezione; non sono però migranti. Quando si fuoriesce dal controllo strettamente individuale, si entra in una dinamica collettiva nella quale ancor più pesano le forzature del contesto. Il gruppo che viene forzatamente spostato altrove dal luogo di residenza, verso un luogo e in un tempo imposti da altri, con modalità vincolanti può essere condizionato comunque in parte da alcune sue (precedenti) scelte e sufficientemente libero per alcune sue (successive) scelte di vita. I reclusi sono una parziale eccezione; non sono però migranti. Le stesse diaspore (dal greco: migrazione e colonizzazione) hanno una variabilità non tutta riconducibile alla dicotomia forzato-libero, involontario-volontario.
Da profughi si diventa ufficialmente “sfollati (“displaced people”, DP) se qualcuno si accorge della migrazione forzata (come organismo internazionale e/o centro studi). Da sfollati si diventa IDP se non si supera il confine nazionale riconosciuto internazionalmente (qual è oggi quello della Ossezia?), qualunque sia l’origine della migrazione forzata. Da sfollati si diventa rifugiati se si supera il confine e solo se l’origine della migrazione è persecuzione/conflitto/violenza. Oggi solo nel caso dei rifugiati la migrazione forzata dà origine a uno status di diritto internazionale e la responsabilità pubblica multilaterale è limitata ad alcuni componenti di quello specifico minoritario (fondamentale) gruppo. In base alle statistiche, la tipologia di costrizione che dà luogo allo status riguarda oggi meno del 10% degli sfollati o profughi, percentuale in progressivo calo. La responsabilità multilaterale della Dichiarazione Universale del 1948 e della Convenzione di tre anni dopo riguarda (con svariate discrezionalità) solo una parte delle migrazioni forzate.
Ora certamente esiste e crescerà esponenzialmente un altro gruppo di profughi o sfollati che impongono (per ragioni analoghe e urgenti, pur differenziando i termini dello status di “rifugiato”) una stessa responsabilità multilaterale: è quella di chi è forzato a migrare dai cambiamenti climatici antropici. La responsabilità non è comunque questione “interna” e non può essere lasciata ai singoli stati.

Emigrazione e fuga, immigrazione e rifugio sono concetti e fenomeni molto diversi
E la storia delle migrazioni, delle immigrazioni, del fenomeno migratorio prescinde dal superamento di un confine statuale. Le migrazioni forzate sono un concetto globale essenziale, anch’esso non sistematizzabile in via di definitiva, se non altro perché chi è costretto se può tornerebbe e dunque, almeno per un certo periodo di tempo, è un “evacuato” più che un “migrante”.
Se si parte dalle definizioni formalmente acquisite nel diritto internazionale e dal sistema ONU e se ci si limita ad esse, si rischia di non aver chiaro e completo il quadro genetico, ecologico, storico, antropologico, evolutivo, socio-economico, culturale del fenomeno migratorio. Il riconoscimento dello status di “rifugiato” la distinzione di “internally displaced people” (rispetto a chi supera il confine di uno stato riconosciuto dall’ONU) sono necessari, densi di significati politici e giuridici, utili a discutere aspetti anche del fenomeno migratorio. Tuttavia parziali e fragili: se si parte di lì si spiega poco e male, si affronta poco e male, si risolve poco.
Il fenomeno migratorio è spesso comprensibile solo dopo che si è verificato. Tipi e modelli, regole e norme hanno bisogno di continue verifiche e adattamenti. Vi sono “forzature” la cui origine non dipende dalla vita della specie umana sapiente in Terra: eruzioni e terremoti. Noi possiamo studiare per prevedere (più che per prevenire) e agire per prevenirne alcuni effetti. Vi sono “forzature” la cui origine è il conflitto fra individui e gruppi della nostra stessa specie: le abbiamo chiamate guerre. L’ONU nasce per evitarle, è il suo mandato principale, lo ha svolto con precari incerti discrezionali successi. Comunque è tutto già scritto (ma non tutto attuato) ed esistono istituzioni internazionali preposte.
Vi sono “forzature” la cui origine è la dinamica (climate change) provocata da comportamenti di individui e gruppi della nostra stessa specie, non violenti o direttamente conflittuali verso altri umani. L’ONU ha ricevuto recentemente anche questo mandato (mitigazione e adattamento), lo sta assolvendo con lentezza ed incerto successo. Una parte di quei comportamenti mette a repentaglio anche il futuro della vita della specie umana sulla Terra, ha toccato il clima globale, è all’origine di nuove “forzature” a migrare, che resteranno anche se i comportamenti muteranno. La comunità scientifica, le autorità pubbliche nazionali e regionali, le sedi di diritto internazionale possono contribuire a circoscrivere ed affrontare lo specifico certo fenomeno dei rifugiati climatici, di qui alla fine del secolo.
Finora ci si è concentrati sui rifugiati, come forzati a migrare da ragioni “politiche”: c’è una contabilità del relativo status. Di profughi ambientali, “environmental refugees”, si è cominciato a parlare dalla seconda metà degli anni settanta, in parallelo con gli effetti della crisi energetica, delle emergenze ambientali, dei limiti dello sviluppo. L’aggettivo ha avuto ben presto crisi di bulimia, eccesso di abuso. Il termine “refugee” ha avuto una inevitabile fondata critica aggiuntiva, essendo associato ad uno “status” già riconosciuto e difficilmente estendibile. La dimensione del fenomeno non consente di smettere di ragionare. Spesso si ricordano i 25 milioni di uomini e donne profughi ambientali esistenti nel 1995 “calcolati” da studiosi ecologisti; alla fine del 2007 il segretariato della Convenzione sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) ha parlato di almeno 50 milioni entro il 2010; oggi varie ricerche prevedono che tendenzialmente saranno molti di più, fra 150 e 250 entro il 2050, tra 400 e un miliardo entro il 2100. Tutto dipende dagli scenari di previsione di aumento della temperatura, ovvero da cosa faremo noi, umani, da oggi in avanti. Sono stati esaminati casi di studio e probabili aree vulnerabili. Sono state distinte o elencate categorie.
Oggi, comunque, i profughi ambientali non hanno “status” riconosciuto formalmente. Lo status ufficiale di “rifugiato” è, del resto, non estendibile sic et simpliciter ad altri gruppi o categorie, derivando dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951. Il “rifugiato” (e il richiedente asilo) non è più nel proprio paese, lo ha abbandonato (dovuto abbandonare) per ragioni di persecuzione/conflitto/violenza (né ambientali né climatiche) previste esplicitamente da convenzioni ONU che garantiscono una conseguente assistenza. Quando un cittadino abbandona la residenza ma non lo stato, per cause di “forza” maggiore viene solo definito dall’Ufficio ONU dell’Alto Commissario per i Rifugiati come “internally displaced person” (IDP).

Nel 2007 11,4 milioni di rifugiati
L’altra specifica agenzia ONU (UNRWA) fa i conti con 4,6 milioni di rifugiati palestinesi. Dunque abbiamo circa 16 milioni di persone con lo status di rifugiato; una popolazione costituita soprattutto da donne e bambini, che per lo più trova assistenza (internazionale) in paesi limitrofi, nell’80% in paesi in via di sviluppo (poveri).
Nelle stesse condizioni, senza status, ve ne sono almeno altrettanti: la registrazione nei paesi d’accoglienza è facoltativa e alcuni profughi preferiscono non farsi identificare; nel mandato dell’Alto Commissariato vi è talora un massimo di domande accoglibili; alcuni stati (governi o eserciti dei paesi d’accoglienza) esaminano preventivamente le domande e ne scartano alcune; altri stati obbligano a pagare preventivamente un permesso di lavoro e il profugo trova subito lo status di lavoratore legale; altri stati offrono incentivi per appartamenti e il profugo trova uno status cittadino; alcuni milioni di profughi restano per varie ragioni apolidi. Nelle stesse condizioni, senza status e senza aver attraversato il confine, vi sono ancor più sfollati interni: IDPs venivano stimati  in 1,2 milioni nel 1982, in circa 26 milioni a fine 2007 (oltre 11 in Africa, 6 in Sudan), un aumento del 6% rispetto a fine 2006. Lo stesso Ufficio dell’Alto Commissariato si è dotato di una definizione di IDP che comprende “natural- or human-made disasters”, pur dovendo concentrare l’attenzione solo su chi riceve formale protezione e/o assistenza (con primaria responsabilità dei governi nazionali, comunque). E così si è arrivati a classificare altre ragioni di “displaced people” come interventi di sviluppo (dighe, infrastrutture di trasporto, edilizia urbana), eventi ambientali, cambiamenti climatici, lasciando a statistiche ufficialmente non-ONU il calcolo globale degli IDP.
La contabilità è complicata e la vita reale ancor di più! Molti profughi o sfollati interni non arrivano ad essere individuati per il carattere minore (o meno amplificato) dell’evento; oppure per scelte dei governi nazionali, per il rifiuto di aiuti, per il rifiuto delle domande di reinsediamento; oppure per il blocco delle frontiere e l’impossibilità di divenire profugo “esterno”. Pensate alla catastrofe birmana dei primi di maggio: 90 mila morti, 56 mila dispersi, venti giorni di rifiuto di lasciar entrare i soccorritori dell’ONU (a cominciare da quelli del World Food Programme, WFP), poi ingresso degli aiuti, gestiti però dal governo autoritario, forza d’origine di molti rifugiati politici (altrove).
I database dell’Internal Displacement Monitoring Center (IDMC) e del Norwegian Refugee Council (NRC) stimano le decine di milioni di sfollati a causa di progetti di sviluppo o eventi catastrofici ambientali. La Banca Mondiale ha calcolato 200 milioni di sfollati nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo per progetti come dighe, aeroporti, insediamenti urbani o industriali. Il Centro di Ricerca sull’Epidemiologia dei Disastri parla di 150 milioni di uomini e donne migrati internamente per problemi ambientali. Ormai non si può fare a meno di riconoscere la categoria dei profughi ambientali (anche senza conseguenze giuridiche).

Le migrazioni non sono un fenomeno pacifico
In quanto mutamento di ambiente naturale e di relazione sociale migrare è causa ed effetto, diretto o indiretto, di scelte umane. Nell’intervallo fra libertà e costrizione intervengono sempre più evoluzione del cervello e dinamiche di gruppo. Esistono due prevalenti “forze” che inducono migrazioni (talora in combutta fra di loro): i conflitti tra esseri umani e gli eventi naturali/climatici/ambientali. Tra gli eventi quelli causati da comportamenti umani non li inventiamo oggi, sia volontari che involontari; quelli volontari quasi mai capaci di contenere una buona valutazione degli impatti.
Si parla spesso di de-localizzazioni, richiesta e/o obbligo di spostamento per individui e comunità da parte di autorità competenti che hanno dato luogo a effettive migrazioni nel corso dei secoli: migrazioni di uomini e donne certo, di piante e animali pure, di conoscenze e tecniche, di lingue e culture, di squilibri ed entropia. Involontariamente può essere accaduto di dover migrare anche per effetti indesiderati di tali comportamenti. Nella seconda metà del secolo scorso i de-localizzati forzati sono enormemente cresciuti in quantità assoluta e relativa.
Nel corso della storia e dell’evoluzione della specie umana, spesso abbiamo riconosciuto eventi ambientali causati da comportamenti antropici che hanno obbligato ad abbandonare il luogo di vita. Non i terremoti e le eruzioni: esistono da prima della specie umana e da prima di ogni specie vivente, sono eventi connessi all’energia cosmica originaria della Terra. Solo la quantità e la qualità degli effetti dipende in parte anche da noi. Possiamo allertarci, proteggerci un poco, ridurre alcuni danni.
E’ diverso (legato a comportamenti antropici) nel caso di quasi tutti gli altri eventi ambientali. Uragani e cicloni, frane e valanghe hanno accompagnato l’evoluzione del clima sulla Terra. La loro estremità, intensità e frequenza è oggi condizionata dai cambiamenti climatici antropici. Anche inondazioni, siccità, innalzamento del mare, desertificazione sono costanti della storia del clima e sono già da tempo divenute meno “naturali”, preparate o favorite da comportamenti umani, via via che la specie umana sapiente si è distesa per l’intero pianeta e ne ha modificato ambienti e climi. Basti pensare agli ecosistemi fluviali e costieri. Oggi sono quasi sempre solo o in gran parte condizionati dai cambiamenti climatici antropici, pur potendo alcuni (i primi, le inondazioni, le siccità) essere percepiti e definiti come isolabili “contingenze” piuttosto che come fenomeni globali. Incendi, deforestazione sono quasi esclusivamente antropici. Incidenti industriali e radioattivi, inquinamenti acuti sono pure quasi esclusivamente antropici. De-localizzazioni per costruire altro sul luogo di residenza di uomini e donne sono esclusivamente antropiche.
E’ anche successo che le condizioni ambientali e climatiche di un luogo di vita siano state modificate da comportamenti umani, Il blocco all’accesso o l’inquinamento di acqua potabile, ad esempio. In genere, si è trattato di conflitti. Erano, comunque, comportamenti specifici di alcuni altri uomini e donne in un determinato momento e riguardavano alcuni uomini e donne di un determinato luogo costretti a migrare. Si poteva capire, spiegare, raccontare l’episodio. E quegli episodi potevano rientrare nelle migrazioni forzate (consapevoli o inconsapevoli) del passato.
Anche dal quarto di secolo in cui si parla di profughi ambientali, fra le tipologie di cause specifiche si cita il clima o si citano eventi che sono anche causa e/o effetto dei cambiamenti climatici: deforestazione, crisi agricole e sanitarie, innalzamento del mare, desertificazione, siccità, degrado ambientale di suolo/acqua/aria, disastri naturali, riscaldamento, perdita di biodiversità, fame e sete. L’insieme di questi fenomeni è riferito all’insostenibilità o ai limiti dello sviluppo economico, al deterioramento (progressivo o improvviso) degli ecosistemi e alla forzata necessità (graduale o immediata) di abbandonare l’insediamento umano.
I rifugiati climatici ovvero climate refugees  non sono tutti quelli forzati dalle condizioni ambientali, sono e saranno il risultato di comportamenti umani che già ci sono stati e che, in parte, ci saranno ancora. Potremmo dire che dall’invenzione dell’agricoltura fino alla seconda guerra mondiale, fino al tempo dei cambiamenti climatici antropici, vi sono stati meno profughi climatici che profughi per cause più propriamente ambientali. Entrambi i gruppi sono ora in aumento, il primo ad una velocità maggiore del secondo, il primo capace di mostrarsi come fenomeno “principale” rispetto al secondo. Ora il primo è anche divenuto in parte meritevole di riconoscimento di un diritto internazionale a “restare”, diciamo da quando sono “ufficiali” cambiamenti climatici antropici.
Nell’ultimo decennio sulle migrazioni forzate molto stanno ragionando la UN University of Bonn (UNU) e lo specifico osservatorio dell’International Association for the Study of  Forced Migration (IASFM). E sui migranti, anche forzati, convegni e approfondimenti rilevanti, interculturali o multidisciplinari, sono stati spesso promossi da istituzioni e organizzazioni religiose e interreligiose. Suggerisco di intrecciare le attività di ricerca  e confronto proprio con gli snodi di questo incontro sardo sul prossimo G8, le perdite di biodiversità, i degradi del suolo, gli stress idrici, le crisi alimentari, le crisi della cooperazione allo sviluppo sostenibile. E con la questione che mi sono permesso di sollevare, quella dei rifugiati climatici.
I rifugiati climatici sono nuovi e diversi (rispetto al passato e rispetto ai migranti ambientali più o meno forzati) perché i cambiamenti climatici descritti dai rapporti dell’International Panel on Climate Change (IPCC) e assunti dall’ONU sono un fenomeno globale e non solo ambientale, permanente e non temporaneo, universale e non geografico; costituiscono dunque una svolta e uno scarto nelle relazioni con le migrazioni in generale e con le migrazioni forzate in particolare.
Ascoltiamo spesso annunci apocalittici, leggiamo titoli biblici su popoli in fuga, circoliamo esagerazioni numeriche. E, allora, consapevoli pure dell’estrema capacità di adattamento della nostra specie, cerchiamo di studiare storia e geografia, di capire e di ragionare, di distinguere e di sistematizzare. E, poi, agiamo di conseguenza! I rapporti ufficiali sul climate change aiutano ad impostare le due nuove questioni cruciali:
a) quali cambiamenti climatici antropici stanno provocando migrazioni umane forzate;
b) dove, quando, come si stanno verificando tali migrazioni.

Le stime sui profughi ambientali e climatici del recente passato, del presente e del futuro non sono semplici
I dati della storia e della geografia del fenomeno migratorio, considerate le molteplici variabili cause, considerata la complessità degli stessi soli fattori ambientali, non sono acquisiti una volta per tutte. Oggi, ad esempio, quotidiane notizie ci consegnano migliaia di storie, decine di eventi che sono percepiti allo stesso modo e che non sono (prima, durante, dopo) la stessa cosa. Agenzie giornalistiche, annunci televisivi, articoli e foto indicano cifre e aggettivano fatti che vengono, in poco tempo, non solo aggiornati o smentiti, ma anche dimenticati o confusi. Contano molto le dinamiche demografiche, l’urbanizzazione, la crescita dei consumi.
Circoscrivere i “rifugiati climatici” aiuta, comunque, ad affrontare meglio, con maggiore consapevolezza ed efficacia, sia l’insieme delle migrazioni forzate, sia l’insieme degli accordi di sviluppo sostenibile. Delimitare le cause che provocano profughi ambientali e “definiscono” rifugiati climatici non significa che tutti vanno affrontati negli stessi termini, con modalità analoghe, con un (eventuale) identico status. Tutti i migranti stanno parzialmente all’interno di altre faglie della convivenza della specie umana sapiente, della permanente dialettica tra costrizione e libertà.
a) Si tratta di cominciare a verificare bene quali cambiamenti climatici hanno provocato, provocano, provocheranno migrazioni forzate permanenti. Dai rapporti IPCC emergono alcuni impatti globali, univoci, certi, seppur in dimensioni diverse nei vari scenari temporali e con un grado diverso di vulnerabilità geografica: l’innalzamento del mare, la scarsità di acqua, gli eventi meteorologici estremi. Frequenti ingenti movimenti forzati di uomini e donne sconvolgono vari livelli di convivenza, nelle piccole isole, dove scarseggia l’acqua, dove giungono fenomeni estremi. Complessivamente, al 2050 il rischio di divenire rifugiati climatici a causa di tali impatti, anche nello scenario migliore, non riguarda meno di 200 milioni di donne e di uomini.
b) Coloro che attendono l’innalzamento del mare che sommergerà la propria isola, coloro che vedono avvicinarsi il suolo desertificato ogni mese di più o hanno cominciato ad adattarvisi da qualche settimana, coloro che vivono (bene o male) senza sapere che un uragano arriverà o che sarà più potente e distruttivo di quel che era stato annunciato sono uomini e donne, unicum, individui di una certa nazionalità, età, lingua, cultura, classe. Alcuni comunque non disposti a migrare, tanto da farsi uccidere o lasciarsi morire; altri già con le valigie pronte, per una precedente volontaria decisione di ricominciare altrove. Tutti meritevoli di attenzione multilaterale, senza automatismi di status o di assistenza, però con possibili (negoziabili e da negoziare) misure di gestione internazionale multilaterale.
La “contabilità” è un problema politico internazionale, sia nel caso che il rifugiato climatico resti all’interno dei confini dello stato dove risiedeva, sia che travalichi i confini dello stato, della regione, del continente. E’ oggi necessario che qualche specifico negoziato ONU definisca i migranti forzati da ragioni climatiche previste dai connessi documenti e impegni ONU sui cambiamenti climatici (i rapporti IPCC, la convenzione quadro, il protocollo attuativo, altre convenzioni globali, il negoziato in corso).
Dalla definizione non deriva uno status, né la richiesta di uno status. Chiarire e circoscrivere l’emergente fenomeno dei rifugiati climatici può suggerire, a seconda dei casi: a) piani di intervento sia interni ai singoli stati, sia di cooperazione bilaterale, sia di aiuto multilaterale, sia internazionale; b) misure scadenzate sia di early warning, sia di mitigazione, sia di prevenzione, sia di adattamento, graduate anche a seconda delle fasce di popolazione coinvolta, dei mezzi tecnologici e finanziari per reagire, del contesto regionale e continentale (l’”ultimo” miliardo di poveri è notoriamente localizzato); c) politiche di informazione, responsabilizzazione, educazione, controllo, protezione, ricerca.

Forzati a migrare, feriti nei dirittiLe migrazioni forzate sono eventi che provocano la lesione del diritto di restare e la negazione della libertà di partire, costringono individui a comportamenti che non vogliono, sia in termini assoluti che relativi a tempo modi forme.
Meno migrazioni forzate ci sono, meglio è. Non a caso, nel diritto internazionale, il livello di tutela riconosciuto ai vari soggetti è, in genere, tanto maggiore quanto inferiore è il grado di volontarietà della migrazione. E’ compito istituzionale dell’ONU prevenire i conflitti, assistere i rifugiati e, possibilmente, azzerare i migranti forzati. Le politiche internazionali per ridurre o prevenire migrazioni forzate sono finora poco efficaci, dipendono comunque dal tipo di forzatura, sono condizionate dai principi di sovranità e di non ingerenza rispetto alle politiche nazionali.
Fra gli Obiettivi del Millennio fino al 2015 non c’è esplicitamente quello di ridurre o prevenire le migrazioni forzate. Non vi è dubbio che, se fossero raggiunti i MDGs, le migrazioni forzate diminuirebbero. I rifugiati, gli sfollati interni, i profughi ambientali e i rifugiati climatici raggiungono ormai tutti insieme un numero elevato di uomini e donne. Sostenere l’ONU, gli Obiettivi del Millennio e gli impegni per lo sviluppo sostenibile, è un modo anche di criticare, avversare, limitare le migrazioni forzate, quegli stati e quei comportamenti umani che le determinano.
Non basta. La prima cosa sarebbe spendere meno in armamenti. Poi, andrebbero davvero realizzati sviluppi sostenibili e molto di quello che si sta discutendo nell’incontro di questi giorni. Occorre anche individuare le misure specifiche, le politiche specifiche, gli aiuti specifici per intervenire alle origini delle migrazioni forzate o dopo che si sono verificate. Non esistono soluzioni eterne e universali. Non si tratta di fissare rigide clausole di cittadinanza o assistenza. E’ ovvio che le condizioni del migrare dipendono anche dal contesto: in che area o in che stato si vive, cosa si può fare, cosa si fa e cosa fanno le istituzioni.
Cominciamo subito e bene dai rifugiati climatici. E’ acquisito che i cambiamenti climatici antropici esaltano impatti che hanno una loro storia e geografia, come la siccità e la desertificazione (essa stessa in parte anche causa dei cambiamenti climatici e ciclici) o come gli eventi meteorologici estremi. E’ studiato che dalle stesse aree vulnerabili si può emigrare a prescindere dai cambiamenti climatici, si è emigrato, si sta emigrando per una pluralità di cause, anche all’insaputa dei rischi futuri. Rifugiati climatici eventualmente si diventerà: riconoscere la “potenzialità” aiuta proprio a prevenire, mitigare, adattare, sperimentare, agendo verso un determinato (da studi scientifici, accordi internazionali, piani nazionali) insieme di uomini e di donne.
Per assistere i rifugiati climatici deve esistere l’obbligo immediato o prevedibile di emigrare. La tempistica, la durata e la destinazione dell’emigrazione devono avere aspetti concertati (più che volontari), all’interno di attività attuative di un obiettivo ONU. L’accordo deve avere aspetti quadro e specifici, nazionali e regionali, bilaterali e globali, nel contesto di un negoziato sul clima, non limitato ai gas serra (risorse idriche, foreste, beni comuni, migrazioni ambientali).
Affrontare concretamente il futuro degli attuali e dei futuri rifugiati climatici può allargare il negoziato climatico in corso verso Kyoto2 nel senso suggerito dai temi opportunamente individuati dalla Regione Sardegna e dall’Università di Sassari (biodiversità, desertificazione, acqua, cibo, diritti umani) e a dare indicazioni anche per altre migrazioni forzate. Ad esempio, è stato calcolato che di qui al 2050 645 milioni di uomini e donne potrebbero/dovrebbero spostarsi a causa di nuovi progetti di sviluppo (come le dighe). Ne vale la pena? Come si relaziona questo sviluppo alle politiche di riduzione delle emissioni e di adattamento ai cambiamenti climatici? Come si affrontano i problemi dei profughi? Ne parlerà il prossimo G8?

Per assistere i rifugiati climatici bisogna quantificare qualcosa nei tre effetti citati dei cambiamenti climatici antropici
I rischi dell’innalzamento del mare sono evidenti, acclarati, fondanti. Alcuni paesi, fra i quali l’Olanda si stanno dotando di una strategia di lungo periodo, ne hanno mezzi tecnologici e finanziari. Diverso è il caso di molti altri paesi e di tutte le aree equatoriali. Diverso è il caso esemplare delle piccole isole. Nello scenario peggiore del rapporto IPCC quelle isole spariranno: i profughi climatici magari (auspicabilmente) vivranno altrove, disperdendosi come popolazione statuale; gli stati non avranno alcun ecosistema proprio, forse governi in “esilio” (forzato, causato dai cambiamenti climatici antropici), sovrani senza territorio. Ebbene, lo Stato nazionale di Tuvalu ha negoziato il primo accordo internazionale che prevede rifugiati climatici nel senso che dicevo. Nel maggio 2004 circa 3 mila uomini e donne di Tuvalu sono divenuti ufficialmente rifugiati climatici. Il governo della Nuova Zelanda ha concertato un programma immigratorio (75 immigrati dalle isole di Tuvalu) riconoscendo i “rifugiabili” di diritto, anche di Kiribati, Tonga, Fiji. Non ogni cittadino potrà andarsene: quelli che hanno determinate età, disponibilità lavorative, conoscenze linguistiche, ecc.; andarsene resterà difficile (o illegale) per poveri ed anziani. E’ un primo passo.
Da un mese sentiamo solo parlare di uragani e cicloni, sempre nelle stesse zone del pianeta (ora là per il Golfo del Messico). Il quarto rapporto IPCC prevede anche un (ulteriore) aumento degli eventi meteorologici estremi. Già tra il 2000 e il 2004 siccità e inondazioni hanno colpito circa 262 milioni di persone (erano meno di 50 nell’intervallo 1975-79, meno di 200 in quello 1985-89 e 1990-94), oltre il 98% delle quali nei paesi in via di sviluppo. Tra il 2000 e il 2004 è stata registrata una media di 326 “catastrofi” ogni anno, ovvero di eventi che hanno almeno 100 colpiti e che provocano almeno 10 morti, la dichiarazione di emergenza nazionale o la richiesta di aiuto internazionale. Il dato è certamente carente secondo l’United Nation Environmental Programme (UNEP)  perché vi possono essere “catastrofi” non segnalate, di cui non viene segnalato il “rispetto” dei criteri definitori, che non soddisfano proprio tutti quei criteri pur determinando crisi alimentari, sanitarie, sociali. E profughi climatici. Nel 2007 l’UNEP ha calcolato chi è più esposto ai cambiamenti climatici, circa un miliardo di uomini e donne del mondo, 344 milioni a cicloni tropicali, 521 a inondazioni, 130 a siccità, più di 2 a frane. La distinzione non è uniforme sulla Terra, né casuale: secondo l’UNEP le “catastrofi” climatiche colpiscono 1 abitante ogni 1500 dei paesi ricchi (OCSE) e 1 ogni 19 (soprattutto donne) dei paesi “poveri”. Nei paesi ricchi (gli USA sono spesso luogo di eventi calamitosi), meno i ricchi, più i poveri e le donne, per varie ragioni. Una caratteristica dei moderni fenomeni estremi è che ormai quasi sempre si sa qualche (poco) tempo prima il giorno preciso, il luogo preciso, l’intensità, la durata. E si può far poco. Ci saranno ancora. Si deve e si può organizzare una migliore preparazione, l’avviso e la protezione civili. Forse si deve e si può anche adattarsi ai rifugiati climatici, interni ed esterni allo stato, al popolo cui accadono e nel cui territorio si verificano.
Dei tre effetti dei cambiamenti climatici, la priorità “quantitativa” per attuali e futuri rifugiati climatici è la crescente scarsità relativa di acqua. Non è un caso che la regione del pianeta complessivamente meno affetta da desertificazione, siccità, scarsità di acqua, ovvero l’Europa, è quella più preoccupata degli effetti migratori globali di quei fenomeni. La lacuna normativa a livello di diritto internazionale è universale e anche comunitaria (non bastano certo le direttive 2004/83/CE e 2001/55/CE sulla protezione sussidiaria e transitoria). Si legga il rapporto della Commissione Europea su “climate change and international security” delle scorso marzo che mette fra le tematiche prioritarie proprio l’”environmentally-induced migration”, cita “UN predicts” e conclude sull’inevitabile necessità di monitorare e gestire. E la si legga purtroppo contraddittoriamente insieme alla recente direttiva “on Forced Return of Migrants”. Così non va: è inutile capire i problemi e chiudere gli occhi, parlare di ritorno forzato e non di abbandono forzato! Non è mio compito affrontare storia e geografia di organiche politiche migratorie di paesi civili e incivili, poveri e ricchi, democratici e autoritari, di volta in volta luoghi di emigrazione e di immigrazione. In questa sede mi limito a suggerire uno specifico negoziato sui rifugiati climatici, maturo socialmente e legittimo giuridicamente.
Non è più rinviabile delineare un sistema di protezione e tutela in funzione della direzione e dell’intensità dei processi di ridislocazione territoriale causati dai cambiamenti climatici, con particolare riguardo alla scarsità d’acqua e all’area europea. E’ difficile costruire un muro sul mare. Il mar Mediterraneo è piccolo piccolo con grandi belle isole, congiunge tre continenti e vari climi, raccoglie ingenti flussi energetici e patrimoni universali. Le Nazioni Unite e l’Unione Europea sembrano non rendersi coerentemente conto di quanto le risorse idriche del bacino del Mediterraneo siano decisive per la sicurezza climatica, sociale, energetica, ambientale del mondo.

Crisi idrica e migrazioni. La perdita di biodiversità negli ecosistemi, la scomparsa (per estinzione o migrazione) di specie animali e vegetali da molti habitat, il degrado del suolo, l’estendersi delle aree secche e desertificate, cambiamenti climatici come scioglimento dei ghiacciai, innalzamento del mare, aumento dei fenomeni estremi (soprattutto siccità e inondazioni) modificano il ciclo dell’acqua e anche le condizioni di accesso sostenibile all’acqua per la specie umana.
L’enorme aumento dei consumi, le trasformazioni agricole e urbane, gli inquinamenti e gli sprechi modificano anch’essi il ciclo dell’acqua e l’accessibilità alle risorse idriche. C’è un water change accanto al climate change, concausa reciproca ed effetto reciproco l’uno dell’altro. All’interno del cambiamento idrico vi è una crescente relativa scarsità d’acqua, all’origine di migrazioni forzate, di conflitti armati, di carestie e crisi alimentari, di epidemie e diffusione di malattie, di crisi energetiche, di instabilità politica, di stress istituzionali. La scarsità di acqua è stata sempre motore di movimenti e di migrazioni, non è questa la novità. La novità è ora i rapporti IPCC/ONU “certificano” sicuri rifugiati climatici a causa di siccità e stress idrici causati da cambiamenti climatici antropici.
Oggi, la crescente scarsità di acqua, in particolare in Africa, in particolare nell’Africa sub-sahariana, accentua la desertificazione già in atto, aggrava il dramma della sete e della fame, provoca migrazioni ambientali e accresce il numero dei rifugiati climatici.
Già vari rapporti ONU (in particolare il rapporto sullo sviluppo umano 2006) ed alcune conferenze internazionali (in particolare quelle svoltesi nel 2006, come il Symposium di Almeria, durante l’anno internazionale dei deserti e della desertificazione, coordinate dalla Convenzione per la lotta alla desertificazione, UNCCD) avevano denunciato i rischi per il pianeta a causa della maggiore scarsità “relativa” di acqua, avevano sottolineato la necessità di connettere la lotta al degrado del suolo alla lotta contro la sete, avevano cominciato ad individuare obiettivi e misure concreti per prevenire e ridurre gli impatti sociali e ambientali della desertificazione e dei cambiamenti climatici. Il quarto rapporto IPCC conferma e accentua l’annuncio della crescente scarsità di acqua in varie aree del pianeta.
Il numero di donne e uomini privi di accesso sostenibile ad una fonte sicura di acqua potabile per qualsiasi ragione (naturale, storica, sociale, climatica) da molti anni supera il miliardo, è calcolato periodicamente dall’ONU ed è valutato da una pluralità di fonti statistiche e scientifiche. Dal 2000 è stato anche solennemente considerato un male assoluto da eliminare, almeno da dimezzare entro il 2015 (il terzo obiettivo del settimo Millennium Development Goal MDG). Non credo che ci si farà. Siamo a metà percorso e sembra improbabile che faremo goal. Secondo la Economic Commission for Africa non più di 11 Stati africani raggiungeranno il settimo MDG in termini di water supply in rural areas e non più di 7 in termini di water sanitation. Eppure, oltre un miliardo di donne e uomini non ha oggi accesso a sufficiente acqua potabile. Eppure, ogni 20 secondi un bambino muore a causa delle malattie associate alla mancanza d’acqua potabile, ovvero più di un milione e cinquecentomila l’anno. Eppure, più di due miliardi e cinquecento milioni di uomini e donne nel mondo vivono in condizioni igienico-sanitarie pessime; vi sono almeno 46 paesi (2,7 miliardi di “cittadini” loro) con rischio di conflitti e altri 56 (1,2) con rischio di instabilità politica connessi alla gestione dell’acqua e allo stress idrico. Eppure, potrebbe andare anche peggio nel futuro. Cresce la popolazione, cresce il consumo pro-capite di acqua, cresce il consumo totale (nell’ultimo secolo si è moltiplicato per sei!), crescono inquinamenti e sprechi delle risorse idriche, crescono infrastrutture che complicano il ciclo dell’acqua. E i cambiamenti climatici aumentano la scarsità relativa di acqua.
Affrontare il nesso multilaterale fra attuali migrazioni forzate e cambiamenti climatici antropici significa contribuire davvero alla lotta alla siccità e alla desertificazione, al degrado del suolo nelle drylands, attraverso appropriata gestione dei rischi ambientali, partneriato per l’aiuto allo sviluppo sostenibile, riconoscimento delle diversità etniche e culturali, valorizzazione delle conoscenze tradizionali, accesso ai mercati contro il protezionismi dei ricchi.
Un diritto universale all’acqua non è direttamente esplicitamente riconosciuto, né per la specie umana né per il vivente non umano. Un riferimento al diritto vitale dell’acqua, forse implicitamente a un diritto umano all’acqua potabile, è contenuto in numerosissimi strumenti, dichiarazioni, carte, rapporti internazionali, globali e regionali. Un diritto all’acqua è riconosciuto in varie forme da circa quindici costituzioni nazionali e richiamato dalle normative di altri stati.
Resta il fatto che il diritto all’acqua non è stato chiaramente definito nel diritto internazionale, non è stato riconosciuto come diritto umano fondamentale, può essere oggi studiato soprattutto come diritto di rango non costituzionale, attuato in (tanti) singoli Stati (a domestic right): l’acqua non è giuridicamente considerata né diritto umano né bene comune né patrimonio comune dell’umanità. Il suo utilizzo è quasi esclusiva competenza (salvo specifiche guerre o specifici accordi) degli Stati sul cui territorio si trova. Alle politiche idriche non possono che associarsi ormai politiche che tengano conto dei rifugiati climatici indotti dalla crisi di disponibilità di acqua. E sono anche convinto che sia urgente ed utile il riconoscimento formale e solenne da parte dell’Assemblea generale dell’ONU dell’acqua come diritto universale.
Il diritto all’acqua minima vitale non è garantito non solo per miliardi di donne e uomini, bensì anche per molte specie animali e vegetali, per il suolo. Il diritto umano (per tutti gli uomini e le donne) può esercitarsi solo se l’acqua è sufficiente alla vita del vivente non umano. Non è possibile garantire il diritto all’acqua per il vivente umano senza garantirlo anche per il suolo. La lotta alla siccità, al degrado del suolo e alla desertificazione è lotta per il diritto all’acqua, per l’acqua come bene comune inalienabile della vita sulla Terra.

 

 












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